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Incidente sul lavoro? No, guerra di classe!

Incidente sul lavoro? No, guerra di classe!

Il 2 settembre, in una Torino ancora semi chiusa, in piazza XVIII Dicembre si è tenuto un presidio indetto dai settori del sindacalismo di base e gruppi politici e sociali dopo la strage di Brandizzo, dove cinque operai della Sigifer, una ditta che aveva in appalto la manutenzione per conto di RFI sono stati uccisi da un treno mentre lavoravano di notte.

Di seguito il volantino che abbiamo distribuito in piazza:

Gli ultimi a cadere sono stati 5 operai impiegati nella manutenzione della linea ferroviaria tra Torino e Milano. Travolti da un treno che non aveva ricevuto nessun segnale di stop, non hanno avuto scampo.

Non è un incidente. Un incidente è qualcosa di imponderabile, impossibile da prevenire, mentre la continua crescita di morti sul lavoro va di pari passo con i tagli ed i mancati investimenti sulla sicurezza.

Nelle ferrovie questo è un fatto strettamente legato alla secca riduzione del personale, all’esternalizzazione dei lavori di manutenzione, agli investimenti sulle linee ad alta velocità a discapito della viabilità ordinaria. Dove passano i treni ad alta velocità c’è un meccanismo che blocca tutto quando c’è un ostacolo sui binari.

Facile e assolutorio parlare di errore umano. Ma anche gli errori umani si moltiplicano quando si lavora senza reali tutele, quando non si investe sui sistemi di sicurezza perché il trasporto ferroviario per pendolari e viaggiatori poveri è un affare poco redditizio.

I cinque operai morti a Brandizzo sono le ultime vittime della guerra di classe tra chi si arricchisce con il lavoro altrui e chi, per vivere, deve rischiare la vita.

Ogni giorno tre persone muoiono sul lavoro: 1090 nel 2022 (+21% rispetto al 2021), 559 nei primi 7 mesi del 2023 (+ 4,4% rispetto al 2022).

A questi si aggiungono i tanti che hanno perso la vita mentre si recavano in fabbrica, in ufficio, a fare una consegna. Un mercato del lavoro che costringe a spostamenti sempre più lunghi, ad accettare un posto anche a trenta o quaranta chilometri di distanza, fa si che si muoia anche mentre si va o si torna dai luoghi della servitù salariata. I tagli al trasporto pubblico espongono a maggiori rischi chi si deve muovere, e sono frutto della stessa logica del profitto che porta le imprese a ridurre la spesa per la sicurezza.

Di lavoro si muore anche per malattie professionali, magari dopo qualche anno di pensione. Avvelenamenti cronici da sostanze tossiche, esposizioni ad agenti oncogeni, sfiancamento. O magari si è più fortunati: non si muore ma ci si porta fino alla tomba una qualche patologia più o meno debilitante.

Il 6 dicembre 2007 alla ThyssenKrupp di corso Regina un incendio scatenato dall’inosservanza delle norme di sicurezza da parte dell’azienda investì otto lavoratori. Sette di essi perirono, i più dopo un’agonia di settimane. Un caso eclatante, avvenuto oramai sedici anni fa. Da allora la situazione è peggiorata, nonostante le lacrime di coccodrillo di istituzioni, Confindustria e sindacati confederali. Negli ultimi dieci anni il numero di morti e feriti sul lavoro è costantemente aumentato. Lo sfruttamento da schiavi in agricoltura ha ucciso braccianti stipati sui furgoncini senza manutenzione usati per portarli in campagna, mentre altr* sono morti collassando sotto il sole rovente. Si muore nell’industria, nella manutenzione, nei cantieri, nei campi, nelle stive delle navi, nei lavori stradali.

Anche le nuove “professioni” della “gig economy” uccidono: si allunga l’elenco dei rider, i fattorini in bici o in motorino, che muoiono o si feriscono mentre portano cibo per qualche grande piattaforma. Lo stato delle strade, la scarsa manutenzione dei mezzi, le condizioni climatiche, i ritmi frenetici del cottimo e la connessa ideologia che glorifica la performatività e l’autosfruttamento che le aziende vorrebbero che i lavoratori introiettassero, sono le cause principali.

La precarizzazione e l’aumento della ricattabilità davanti al padrone costringono ad accettare condizioni di lavoro che fino a qualche anno fa si sarebbero respinte.

È così in tutto il mondo. La globalizzazione della povertà investe ogni angolo del pianeta. In ogni dove i padroni si arricchiscono sulla vita e sulla morte degli sfruttati. La nostra risposta, come lavoratori, disoccupati, precari, non potrà che essere sul piano internazionalista e di classe.

In ogni dove si investe in armamenti e spesa militare, per difendere ed estendere gli interessi imperiali degli stati e dei padroni. Provate ad immaginare se una piccola parte dei 104 milioni di euro che il governo sperpera ogni giorno in spese militari fossero impiegati per rendere più sicura la rete ferroviaria del nostro paese. Provate ad immaginare quanto sarebbero migliori le nostre vite se tutti quei soldi servissero per la cura e non per la guerra.

I padroni stanno combattendo una guerra che come sfruttati dobbiamo riconoscere come tale. E combatterla. I sindacati confederali e le istituzioni si limitano a qualche frase di circostanza. Non ce ne stupiamo: il loro ruolo è quello di guardiani dell’ordine costituito.

Spetta a noi prendere in mano le redini del nostro destino con azione diretta, picchetti, blocchi. Non solo. Serve costruire spazi politici non statali, moltiplicando le esperienze di autogestione, costruendo reti sociali che sappiano inceppare la macchina e rendere efficaci gli scioperi e le lotte territoriali. Così potremo liberarci e vivere una vita in cui non si muoia più in nome del profitto di qualche padrone.

Un mondo senza sfruttati né sfruttatori, senza servi né padroni, un mondo di liberi ed eguali è possibile. Tocca a noi costruirlo.

Federazione Anarchica Torinese

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